Un povero che accoglie un povero in una città lontana

Nelle migrazioni italiane, avvenute in un sistema sociale dove non esistevano istituzioni pubbliche o enti privati capaci di accompagnare il percorso dei migranti, la famiglia ha avuto un ruolo preponderante e, in qualche misura, escluse anche le organizzazioni collettive più rilevanti, le quali si fermavano di fronte al confine del nucleo familiare. Cionondimeno, la solidarietà tra migranti fu capillare e salvifica per moltissimi di loro, e con l’esplosione dei movimenti sociali e delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, mutò notevolmente anche il rapporto tra i Meridionali e l’immaginario collettivo della società in cui si trovarono a vivere. I giovani e i lavoratori del Sud oltre ad essere in prima linea, portarono in dote ai movimenti di emancipazione, operai e studenteschi, la radicalità derivante dallo sradicamento collettivo che avevano vissuto e la cultura di ribellione delle rivolte contadine e della storia del Mezzogiorno.
Così, Pasquale P. di Cerignola, 33 anni, descriveva l’accoglienza avuta a Milano per qualche mese da parte di un altro meridionale, un povero che accoglie un povero in una città lontana ed, inizialmente, ostile: «Appena arrivato a Milano sono andato a casa di un amico […]. Era una famiglia con otto figli e vivevano al Porto di Mare, e io appena sono arrivato sono andato in quel posto là, e ho pensato che era meglio restare a casa. Era nel ‘52, e compivo gli anni in treno quando sono venuto, facevo 26 anni. Quelli vivevano in 16 metri quadri di spazio: là si cucinava, si dormiva, tutto si faceva, e c’erano tre figlie femmine. Quella brava gente volevano tenermi ancora, ma io stesso ho capito che era impossibile. Alla sera andavo letto bianco e alla mattina mi alzavo nero, perché erano carbonai loro. Erano facchini di stazione; scaricavano il carbone, ma là dentro non avevano come lavarsi. Si lavavano la faccia, le gambe, alla buona, così; ma il carbone va nei pori e ci vuole l’acqua calda, e quando sudavano ci veniva fuori. C’era una branda di un posto e dormivano tre ragazze, 24, 21, 19; dormivano testa e piedi; e la sua madre dormiva su di una trapunta a terra vicino alle figlie. La mamma, poveretta, non dormiva la notte. Aveva cura di coprire le figlie perché faceva caldo e si scoprivano, e li c’eravamo noi uomini, e noi ci teniamo a quella cosa lì. Diceva: “Non importa, io ho cura delle ragazze, dormo di giorno mentre voi lavorate”. Poi c’era un letto matrimoniale che dormivo io, il padre, un momento che mi confondo solo a pensarli… dunque: io, il padre, tre figli maschi e il piccolo. Tutti là di traverso. Poi loro al mattino andavano allo scarico di Porta Genova» (Alasia F., Montaldi D., 1975)

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 123-124

 

La vita di un ambulante povero

Ma le storie della “corea” si intrecciavano con le vite e le vicende dei suoi abitanti, spesso provenienti da dimensioni spaziali e abitudini culturali completamente diverse, sebbene accomunati dall’assoluta determinazione di conquistare il proprio piccolo pezzo di felicità e il diritto ad un’esistenza dignitosa.
E’ emblematico lo scontro, con le autorità comunali di Carlo, 22 anni, meridionale, venditore ambulante. Egli voleva proseguire il lavoro del padre che gli garantiva un certo giro di vendite e, come lui, si sentiva perseguitato dai verbali dei vigili urbani che diventarono praticamente la sua ossessione e il simbolo di un’ingiustizia.
Da un mestiere di tipo libero, si reinventò come manovale, venditore volante di fiori, spugnaio, ma le multe si moltiplicarono e, ad un certo punto, divennero insostenibili spogliandolo, oltre che di un introito economico, anche dell’unico mestiere che riteneva di saper fare veramente e perciò della sua dignità di lavoratore e di uomo. E se in teoria il Comune avrebbe dovuto garantirgli un alloggio per le sue condizioni economiche e familiari, in pratica, per avere la casa, dovette occuparne una, illegalmente.
Quella di Carlo, è una storia emblematica, suo malgrado, della difficoltà dei migranti di inserirsi in un sistema di regole che non teneva conto dei nuovi cittadini e delle loro esigenze, la sua richiesta di licenza di ambulante infatti gli era stata rifiutata più volte dal Comune e dal Prefetto, a causa della sua giovane età. La sua testimonianza si concludeva con una frase, drammatica e lucida, che assegnava, in modo tristemente appropriato, un titolo alla sua storia: «La vita di un ambulante povero».

Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, pp. 130-131