I Meridionali dilagarono come un’orda di barbari, di forestieri rozzi, che parlavano “lingue” diverse e avevano altri modi di rapportarsi ai sindacati e alle lotte, ai padroni e alle Istituzioni.
Di certo erano lontani dal “buon senso” dell’aristocrazia operaia torinese, dagli operai specializzati e qualificati del Nord, erano, in fondo, ancora dei contadini sradicati, ma ben presto si resero conto, più degli altri, che per avere diritti, stabilità, non era necessario “togliersi sempre il cappello davanti al padrone”, che con le lotte e le proteste potevano migliorare le loro condizioni di lavoro e di vita, che in quel frangente di piena occupazione il licenziamento era un’arma spuntata.
Allo stesso tempo, molto era cambiato anche nell’organizzazione del lavoro, diminuiva la complessità ed aumentava il ritmo, le mansioni diventavano sempre più ripetitive e la velocità era imposta dalle macchine. La produzione in serie non aveva più bisogno di estro e autonomia decisionale, ma di “attrezzi” al servizio di altre macchine, ovvero di operai comuni e di forza lavoro giovane.
Tratto da Candido N. (2017), “I Migranti Meridionali nel Nord italia, dal dopoguerra ad oggi“, p. 168