Il lavoro di Nicola Candido affronta temi di fondo, a cui accennerò, sul piano storico/analitico, ma anche problemi di stringente attualità, in un tornante storico, come l’attuale, di ricollocazione dei poteri nazionali ed internazionali, a più di 150 anni dall’Unità d’Italia. Fin dal 1920, infatti, Gramsci tratta la “questione meridionale” come specifica determinazione del capitalismo e considera la necessità di «dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non soltanto come un problema di rapporto di classe, ma anche e specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale». È essenziale, argomenta Gramsci, che il partito si muova su due fronti: «è necessario che distrugga nell’operaio industriale il pregiudizio, inculcatogli dalla propaganda borghese, che il Mezzogiorno sia una palla di piombo che si oppone ai più grandi sviluppi dell’economia nazionale, e distrugga nel contadino meridionale il pregiudizio ancora più pericoloso per cui egli vede nel Nord d’Italia un solo blocco di nemici di classe». Il tema, dunque, ripetutamente posto da Gramsci, è quello di superare l’unità nazionale risorgimentale, gravemente reazionaria, basata sull’annessione delle regioni del Sud, per sviluppare un reale senso della nazione fondato «sull’alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato». Oltrepassando, quindi, il Risorgimento, fondato sul ruolo passivo e subalterno delle masse meridionali. È un tema di grande attualità perché si ricolloca, oggi, nella nuova divisione internazionale dei lavori, delle produzioni, dei saperi, dei poteri (di cui la grande questione dei nuovi flussi migratori è la proiezione sul piano della formazione sociale). Anche perché la crisi recessiva sta avendo effetti asimmetrici tra le regioni italiane ed europee. Colpisce molto più il Mezzogiorno, perché più dipendente dalla domanda interna e perché l’austerità (aumento delle tasse, tagli alla spesa, mancati investimenti pubblici, precarizzazione totale del mercato del lavoro) è stata molto più intensa al Sud. E mancano assolutamente prospettive di politiche economiche espansive, per lo meno nel medio periodo. Né le strategie europee (il “piano Juncker” e la “connecting europe facility”) individuano risorse e criteri per rilevanti investimenti pubblici (bloccati, sostanzialmente, dai vincoli alla spesa collegati alle regole europee e al patto di stabilità). Ritornano di grande attualità i tratti fondamentali degli interrogativi gramsciani sul che cosa, come, per chi produrre? Cosa significa, oggi, nel Sud, sviluppo autocentrato, collegato alle risorse territoriali, dopo decenni di distruttivo gigantismo industriale (oggi, tra l’altro, in crisi e in fase di destrutturazione)? Abbiamo di nuovo dunque, ha ragione Candido, il grande tema: “cosa è l’identità meridionale”? Come si configura un territorio che è “a Sud di nessun Nord”? La domanda allude alla contraddizione tra capitale e vita, come bene spiega Candido. Essa, infatti, ricostruisce la filiera dei territori, che non sono nicchie di arretratezza ma epifenomeno della globalizzazione, pratica totalizzante di vite precarizzate, di nuovi migranti, portatori di saperi collettivi che vengono sottratti ai territori meridionali. Penso che queste siano le forme inedite della nuova dipendenza, dello “sviluppo diseguale”, che si configura anche come un violento rapporto di dominio biopolitico. Sono le vite stesse dei giovani e delle ragazze meridionali ad essere messe al servizio del capitale, in una pendolare oscillazione tra tradizione e modernità. La “nuova questione meridionale”, quindi, non deve subire cadute economiciste; perché è, insieme, crisi della democrazia, critica dell’economia politica, questione geopolitica euromediterranea. Per questo occorre ricostruire una rete democratica dal basso. Resistenza conflittuale, “mutualismo” autogestione sono profondamente in connessione politica ma, soprattutto, sociale. Bisogna ricostruire la società meridionale, che recessione, poteri criminali, abbandono governativo hanno frantumato. Se il Nord, insomma, guarda alla Baviera, alla Carinzia, all’inserimento subalterno del proprio sistema produttivo di piccole e medie aziende nel capitale mitteleuropeo, dal Sud deve partire una serrata critica a questa Unione Europea. Grecia, Portogallo, Spagna ci insegnano che occorre cambiare baricentro, equilibri, priorità. Il Sud non è l’appendice marginale di una Unione Europea sempre più oligarchica, a conduzione tedesca e francese, con un Euro a doppia velocità che subordina sempre più l’Europa mediterranea ai poteri finanziari mitteleuropei (con l’ulteriore ricatto della City londinese). Giustamente Candido ripropone, rovesciando lo schema, la centralità del Sud come cerniera privilegiata (storicamente oltre che geopoliticamente) tra Europa e Mediterraneo. Entrambe le aree, peraltro, vivono contesti convulsi (ed anche bellici). Dobbiamo progettare, definire segmenti di programma, affinché lo sviluppo autocentrato sulle risorse dei diversi territori (i tanti Sud dentro il Mezzogiorno) diventi una vera e propria proposta di politica economica alternativa, fondamento della regione euromediterranea. Forse dovremmo rivisitare ed approfondire i temi produttivi, sociali, perfino antropologici (pensiamo alle grandi migrazioni) che 30 anni fa un grande studioso, Samir Amin, chiamò “parziale sganciamento”. Penso al sindacalismo sociale territoriale, ad esempio, da costruire all’interno delle lotte per l’occupazione ed il reddito, di smilitarizzazione e denuclearizzazione, di mediazione culturale transnazionale, di esperienze di cooperazione Nord/Sud ma, soprattutto, Sud/Sud, per costruire nuove ragioni di scambio e nuove aree economiche integrate tra i popoli delle varie sponde del Mediterraneo. Per ricostruire una nuova sinistra meridionale occorre “fare la fatica” di ricominciare ad analizzare le sconvolgenti novità e di riorganizzarsi nei luoghi di lavoro e di vita.